The Cremator: L'Uomo che Bruciava i Cadaveri

di Juraj Herz (1969)

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  1. Biophilofilo
     
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    Spalovač Mrtvol è un film veramente difficile da rintracciare nella versione doppiata in italiano, benché esista con il titolo The Cremator: l'Uomo che Bruciava i Cadaveri. Il film ceco, firmato Juraj Herz, è interpretato nel ruolo principale da Rudolf Hrusínský, attore molto noto in Repubblica Ceca, meno a livello internazionale (nonostante le sue collaborazioni in Italia, in film come La Valle di Pietra di Maurizio Zaccaro e La Piovra 6 – L'Ultimo Segreto, di Luigi Perelli, entrambi del 1992).

    La trama del film, letta nella sola successione degli eventi, può a prima vista risultare molto semplice: “In Cecoslovacchia, alla fine degli anni '30, Kopfrkingl ama il suo lavoro al crematorio. Adora leggere il libro tibetano dei morti e da esso adotta la visione per cui la cremazione esenti dalla sofferenza terrena. Ad un ricevimento incontra Reinke (Ilja Prachar), con cui aveva combattuto in Austria nella prima Guerra Mondiale. Reinke convince Kopfrkingl ad enfatizzare la sua supposta eredità germanica, includendo l'invio del suo timido figlio (Miloš Vognič) ad una scuola tedesca. Reinke poi suggerisce che la moglie di Kopfrkingl (Vlasta Chramostová), per metà ebrea, stia occultando il suo progresso lavorativo”. (Will Gilbert, dall'IMDb) … In seguito a ciò, Kopfrkingl, nella sua crescente insanità mentale, decide di uccidere la moglie perché, per metà, di sangue ebreo, il figlio, perché è per un quarto ebreo ed è effeminato, e la figlia (Jana Stehnová), anch'ella per un quarto ebrea.

    Come si vede, la trama, benché già risulti forte e densa di sentimento, è abbastanza intuibile, se non dire poco originale. La bellezza del film sta infatti in due caratteristiche: la tecnica artistica adottata e una sorta di seconda trama che viaggia di pari passo a quella principale.
    Nel primo caso ci troviamo di fronte ad un film del 1968, in bianco e nero. La trama musicale, composta da Zdenek Liska, è forse il primo fattore che ci introduce nel film con forza, con sentimento di angoscia, come angosciante è la musica adottata nella prima sequenza di immagini, quasi a trasformare sin dall'inizio la figura del protagonista in qualcosa di disumano. Ed è proprio così: già nella prima sequenza veniamo gettati nell'atmosfera mentale del protagonista, come poi è la mente del protagonista l'habitat in cui si svolge la già introdotta seconda trama. Siamo di fronte alla gabbia di un leopardo, che si muove sinuoso all'interno e ruggisce silenzioso – solo il silenzio può renderci capaci di percepire il ruggito dell'animale, o meglio, il modo in cui quel ruggito viene ascoltato dal protagonista, che narra la storia dell'incontro con la moglie proprio di fronte a quell'onirico muoversi dell'animale. L'amore per Lakmé si fa, sin dalle prime parole, sinuoso quanto i gesti del felino, come solo le parole di una lingua est-europea possono esserlo: dettagliate, dentali nell'introduzione e morbide nella conclusione della frase, come lo scatto dell'animale e il suo muoversi furtivo nello spazio ristretto della gabbia. La musica diviene la gabbia di quelle parole, rigidamente modellabile, costante ma variabile, come le sbarre della gabbia del leopardo, immobili ma variabili nella sfumatura dell'immagine, resa per riprendere il loro contenuto finché non concepiamo l'amore di questo non-uomo – la mente si fa gabbia, la tigre è sua moglie, la sua tangibilità, e il suo movimento è lei, ciò che lui ama, il suo amore.

    Benché solitamente i titoli iniziali di un film non rientrino nella critica del film stesso, sono da notare le immagini che ci vengono proposte durante l'introduzione del cast. Le fotografie sono di una bellezza artistica raramente visibile in un'opera cinematografica ed è ancor più raro trovare un altro film in cui le immagini proposte durante i titoli siano un fattore di introduzione al film così importante, tanto da avere una loro presentazione nel momento in cui il protagonista, insieme al suo ambiente familiare, si specchia alla fine del prologo.
    Non sono in grado di descrivere la bellezza artistica delle fotografie, ma posso solo dire che senza quest'introduzione, la porta che ci fa entrare nel film non verrebbe aperta.

    Un'altra tecnica essenziale nel film, che presto ci viene data in regalo, è quella della ripresa fish-eye, che richiama evidentemente una sfumatura da film thriller-giallo, citando così Hitchcock e facendoci intuire che il film stesso è da considerarsi una ragnatela da districare, che ci sia un qualcosa che deve essere scoperto e che questo segreto è, quasi con testardaggine, messo a custodire nella mente del protagonista.
    Correlato a questa tecnica, con lo scopo di immedesimare lo spettatore con il protagonista e portarlo direttamente ad un concepimento del film per mezzo della mente di quest'ultimo, abbiamo un ottimo esempio di POV-shot (Point of View Shot – Ripresa a punto di vista), una tecnica tramite la quale ciò che è ripreso dalla macchina da presa è ciò che il protagonista stesso vede, una tecnica che qui diviene essenziale per comprendere l'anima e la personalità del protagonista, limpida nei momenti di massima realtà, distorta dalle lenti del fish-eye nella sua mente.

    Il film è anche un raro esempio dell'utilizzo dell'overlapping editing, o sovrapposizione temporale, ovvero, citando il “Manuale del Film” di Rondolino e Tomasi, “un particolare effetto di montaggio dove la parte finale dell'azione rappresentata in un piano viene nuovamente mostrata in quello successivo … l'inquadratura B non inizia laddove finisce A, ma un po' prima. In questo modo il piano B ripete l'ultima parte del movimento rappresentato in A.” Descrivere quest'effetto è davvero più difficile che guardarlo e concepirlo. In parole povere, la scena che viene presentata prosegue sino alla sua fine, ma in un certo senso non ha fine, dal momento che l'ultima immagine mostrata è l'inizio di quella successiva. In questo modo non esiste alcuno stacco tra le due scene e per tale motivo si va creando, come afferma Ejzenstejn (creatore della tecnica e uno dei pochi ad averla utilizzata), un'estensione temporale, nel senso che lo spettatore non è, in questo modo, più consapevole di quanto tempo reale sia trascorso tra i due eventi.
    La difficoltà di spiegare il motivo per un passaggio così veloce è tanto grande quanto grande è la difficoltà di introdurre una tecnica simile in un film. Una modificazione dello spazio temporale tra due scene potrebbe indurre lo spettatore ad una non comprensione della trama, rendendolo quindi incapace di apprezzare il film; inoltre, la possibilità di provare noia potrebbe aumentare di conseguenza. È perciò importante che questa tecnica venga introdotta sotto determinati dettami e in un contesto narrativo che la possa accogliere. La genialità del regista sta proprio in questo: accorgersi di tale possibilità, e in un film come “Spalovač Mrtvol” è possibile, anzi, necessario farlo, dal momento che la trama si svolge su due piani strettamente correlati tra loro, quello della vita reale del protagonista e quello della sua mentalità/razionalità/sensibilità. Come la tecnica dell'overlapping editing congiunge strettamente due scene (o piani consecutivi nel film) ma non a livello temporale, così essa ci spinge a congiungere strettamente i due piani su cui si svolge la narrazione, contemporanei ma non spazialmente paralleli, bensì incidenti l'un l'altro, come è incidente l'introduzione delle visioni del protagonista nell'evento che ha luogo (il monaco tibetano che irrompe nella narrazione). In questo modo ci ritroviamo da una parte, ad esempio, Karel che, mentre parla nel bordello con la prostituta introduce, continuando a parlare in primo piano, la scena successiva in casa sua; dall'altra, sempre ad esempio, la scena in cui Karel ha appena ucciso la moglie e arriva il monaco tibetano, fulcro in cui si ricollega alla vita reale del protagonista quella “mentale”, ergo una visione più soggettiva del protagonista da parte dello spettatore.
    La figura del monaco è accompagnata dall'uso di lenti ottiche (fish-eye), che ci ricollegano sempre al punto di vista del protagonista e alla costruzione cinematografica del suo io all'esterno.

    Come già detto, esiste una seconda trama del film, che si intreccia costantemente alla prima e sin dall'inizio ne siamo messi, inconsapevolmente, a conoscenza grazie alle tecniche citate.
    Il film è denso di aspetti metaforici creati per rendere interpretabile la trama, portando il piano onirico dell'opera su un piano di maggior riflessione, quello del surreale; questi aspetti sono vere opere d'arte. Tralasciando il magnifico simbolo ricorrente della tigre, già spiegato, nel film ci viene introdotto uno spirito che segue costantemente il protagonista (la donna pallida dai capelli bruni e lisci). Questa donna è il primo cadavere nel crematorio che ci viene presentato dal protagonista; essa è ciò che congiunge la sua personalità alla realtà dei fatti, tanto che questo spirito appare nei momenti di maggior profondità psicologica del protagonista. È, in un certo senso, la coscienza di Kopfrkingl, la consapevolezza della realtà. Immobile, fredda, sorridente nel momento di svago e di non preoccupazione (quando è nel bordello), sempre più distante man mano che l'uomo si allontana dalla sua sanità mentale, una consapevolezza di perdersi nelle proprie elucubrazioni tale da rincorrere l'uomo alla fine del film, quando ormai la perdita è inevitabile, quando ormai le conseguenze delle proprie azioni sono incipienti e la parola “fine” sta per chiudere il film.

    Un altro fattore della seconda trama, che denota l'amicizia e lo “stesso punto di origine” con il connazionale Jan Svankmajer insieme alla comune capacità di controllo sull'intera mise-en-scene, è la passione dell'uomo per la forma, per il corpo umano (come ci viene introdotto nei titoli iniziali), per la personalità nascosta negli sguardi (i primi piani sono forse il fulcro principale su cui gira l'intera storia, da ciò la bravura degli attori), in un'armonia che ricorda l'eterogeneità de “Il Giardino delle Delizie” di Hieronymus Bosch; conseguentemente abbiamo la sua passione per il proprio lavoro, la passione per i dettagli (che funge anche da messaggio subliminale per creare un certo tipo di ambientazione – basti pensare alla prima inquadratura dello spirito di fronte al quadro). Tutte queste caratteristiche della personalità del protagonista vengono utilizzate dalla regia come un secondo copione, privo di consequenzialità e fatto di immagini e parole da dover introdurre: fattori che creano lo scenario, che sono protagonisti del film e che ci portano, man mano che il film prosegue, ad un altro importante fattore e co-protagonista della pellicola: la seconda guerra mondiale.

    Il film – benché possa essere a prima vista sbagliata questa interpretazione – è forse un raro esempio di critica non tanto della guerra mondiale, quanto del totalitarismo, al punto da ipotizzare – pur sbagliando – che l'intero film sia una metafora del processo che avviene all'interno della mente di un individuo soggetto ad una tale condizione sociale.
    Effettivamente, Karel Kopfrkingl è una persona benestante, non ricca ma neanche povera, ha un lavoro con un'esperienza ventennale ed una buona famiglia amorevole. Questa condizione di benessere funge, per tutta la durata del film, come un pretesto per non confutare le scelte che, alla fine del film, lo porteranno ad uccidere. Queste scelte si rivolgono a lui medesimo, nella vita reale cittadino di una nazione governata da un tiranno: lui stesso nella sua passionalità, nella sua considerazione di bellezza e di giustizia. Consapevole e avvalorato dal benessere della propria condizione quotidiana, qualsiasi contrasto a questa situazione risulta essere qualcosa di diverso, estraneo e quindi da eliminare. Benché la condizione sia creata da lui, dai componenti della propria famiglia, dalle altre persone circostanti e, più in generale, dall'ambiente, nel momento in cui il soggetto del contrasto risulta essere, ad esempio, un membro della famiglia stessa, questi deve essere eliminato, deve, anzi, scomparire e rimanere solo ciò che mantiene il suo benessere, come accade con l'amore per la moglie che, una volta morta, non è più presente se non nella forma della tigre nella gabbia; o l'efficienza di aver fatto lasciare la sbarra da Dvorak, che nel momento dell'assassinio dei figli sembra essere, per il protagonista, uno degli aspetti di maggior rilievo.

    Mi sono corretto immediatamente quando ho definito il film come una metafora della condizione di un “totalitarizzato”, perché se solo così fosse, molti altri aspetti del film verrebbero meno e sarebbero inutili. È molto più giusto considerare quest'ovvia interpretazione (la critica alla guerra mondiale, percepibile per tutto il film) come una concausa che si intreccia a tutte le altre, derivando da esse, portando ad altre considerazioni, ricollegandosi ad altre ancora, come in una vera e propria ragnatela di pensieri, tutti concatenati e finalizzati ad uno scopo, quello di raggiungere il benessere del protagonista. Da qui il ricollegamento al cinema di Hitchcock, al thriller non tanto psicologico quanto d'intreccio, benché in “Spalovač Mrtvol” l'intreccio avvenga nella mente del protagonista e tra la sua mente e la vita reale.

    La conclusione della ragnatela è data dall'assenza del ragno, pronto a lasciarla per trovare cibo o per procreare. Il ragno scende lungo un unico filo dalla costruzione appena completata, velocemente. Dopo un duro lavoro lento e fatto per introdurre tutte le conformazioni geometriche atte a rendere stabile la struttura, il ragno se ne va, o si nasconde... ergo, Karel vuole sbrigarsi, è alla fine dell'opera, e così il regista. È una corsa.
    La figlia deve morire, le cause le sappiamo, destabilizza la ragnatela, un filo di troppo, un'ebrea. Ma quel filo è comunque importante, non sappiamo come, non sappiamo quale altro filo regga; distruggerlo, forse, destabilizzerebbe l'intera struttura, per lo spettatore la trama sarebbe solo la storia di un assassino; e allora, confacente con l'andar male delle cose fatte di fretta, la scena cade in una considerazione che possa evitare di affrontare il problema e che permetta di essere rapidi: lasciarla vivere. Non è essenziale ucciderla, lei ha capito, non si presenterà più nella sua vita e così nel film; la ragazza è già morta nel momento in cui l'idea che fosse da uccidere è divenuta palese.
    Il monaco tibetano ce lo spiega: se ne occuperanno loro.
    Il benessere è davanti, l'inquadratura è l'orizzonte, c'è una macchina, c'è la scelta di salire ed è la più veloce da prendere.
    Il film deve finire.

    Scegliere una delle parti che compongono la ragnatela di considerazioni con lo scopo di decifrare una morale del film, porterebbe ad una conclusione plausibile, ad una spiegazione del film giusta ma mai completamente soddisfacente.
    Come il film deve smetterla di esistere così lo spettatore deve smetterla di pensare ad una morale del film.
    Un dipinto di Dalì può darci forti sensazioni, possiamo cercare di capire cosa voleva dire il pittore, cosa voleva mostrare, ma non siamo in grado di farlo dal momento che non siamo lui, quindi dobbiamo fermarci alla nostra interpretazione, lo facciamo nostro e prendiamo da esso ciò che ci dà: è un'opera d'arte. Allo stesso modo questo film può darci forti sensazioni, possiamo cercare di capire quale fosse la morale, quale fosse la conclusione, ma non siamo in grado di farlo dal momento che non siamo noi il regista, quindi dobbiamo fermarci alla nostra interpretazione, lo facciamo nostro e prendiamo da esso ciò che ci dà: è un'opera d'arte.
     
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